Il problema principale del nostro calcio è che non ci sono più soldi. Una contraddizione visto che il calcio, in Italia, fattura 1,7 miliardi di euro e che, come tutto il calcio globale, è riuscito ad evitare la recessione che ha colpito altri pezzi dell’economia.
Eppure, i soldi sembrano essere finiti. Perché il livello dei costi, escludendo le plusvalenze, spesso utilizzate come giochino contabile, rimane insostenibile e si comprime a fatica. Ed allora le passività raggiungono livelli incontrollabili.
I debiti, al netto dei crediti, sono in costante crescita: 1.715 milioni di euro nel 2013-14, oltre un centinaio in più in dodici mesi (1572 milioni nel 2012-13) con un aumento del 27% in cinque anni (1.350 milioni nel 2009-10). Questo rappresenta il dato più allarmante emerso analizzando i bilanci delle società del massimo campionato, relativi alla scorsa stagione.
Il caso del Parma calcio, è la punta di un iceberg. Le altre 19 squadre sicuramente non se la passano meglio. In tante, attraversano problemi di liquidità che, solamente con il ricorso al credito si riescono ad arginare. Analizzando il patrimonio netto aggregato della Serie A si evince che i 213 milioni di euro, risultano pochi in relazione alle dimensioni del business del calcio.
La crisi economica ha generato difficoltà in diverse aziende, producendo una riduzione dei margini di intervento dei proprietari: tra versamenti in conto capitale e prestiti, nel 2013-14, i soci maggioritari delle società di calcio della massima serie, in Italia, hanno immesso 222 milioni nelle casse dei club, 60 in meno dell’anno precedente. Se, come negli ultimi anni, l’azionista non interviene, allora è pronta la banca, soprattutto l’istituto di factoring, ben felice di prestare denaro in cambio della cessione di contratti futuri per tv e sponsorizzazioni: erano 977 i milioni di debiti bancari nel 2012-13, che sono diventati 1056 nel 2013-14.
I Casi di Inter e Roma sono emblematici. Per risanare la loro posizione, hanno internazionalizzato il debito, attraverso la creazione di società ad hoc, al cui interno conferire tutti i loro beni pregiati ed affidandosi alla Goldman Sachs, per l’attività di consulenza: 230 milioni ai nerazzurri (che stanno discutendo l’emissione di un bond), 175 per i giallorossi. Naturalmente è tutto lecito, la leva del debito, non è deprecabile di per sé, tutte le aziende, anche quelle sane, ricorrono a tali espedienti. Ma questa pratica, va rapportata ai flussi di cassa e deve servire per investimenti in grado di dare sviluppo dentro e fuori dal campo.
Il passivo del calcio italiano è talmente elevato che, in alcuni casi, le società vengono messe in vendita ed acquistate a debito, cioè con una valutazione minima delle azioni in sé, di sicuro inferiore alle attese che una squadra, un brand suscitano: si pensi, ancora una volta, alla Roma che UniCredit ha ceduto a condizioni di certo non sfavorevoli a Pallotta e soci, si pensi all’Inter che la cordata di Thohir ha rilevato attraverso un aumento di capitale di 75 milioni, si pensi alla Sampdoria che Ferrero ha rilevato da Garrone a costo zero.
Le preoccupazioni principali per la Serie A sono legate proprio alla capacità di ripagare i debiti con le risorse proprie, come dimostra il caso Parma. Anche perché la gestione economica, in generale, non migliora. Rispetto al 2012-13, i dati fondamentali non subiscono variazioni rilevanti. Il fatturato diminuisce leggermente (da 1.772 a 1.754 milioni) così come i costi (da 2.365 a 2.333 milioni), continuano a crescere le plusvalenze, al netto delle minusvalenze (da 409 a 432 milioni) ed il risultato netto aggregato è negativo per 186 milioni. Un po’ meglio rispetto al -203 dell’anno prima ma pur sempre in rosso. Dodici squadre su venti sono in deficit:
Quelle che se la passano meglio sono il Napoli (+20,2 milioni), la Lazio (+7,1) ed il Verona (+5,3). Il principale problema è il costo del lavoro, è su questo elemento che bisogna agire. In generale la Serie A, sta faticando molto ad avviare un percorso virtuoso, solo sei società hanno ridotto questa voce nell’ultima stagione. Il problema degli stipendi non è qualitativo ma quantitativo: troppi i tesserati, troppi i trasferimenti. L’introduzione del tetto alle rose, imposta dalla Figc, potrà, forse, servire ad invertire la rotta.
Tutti i club, escludendo il Parma, tendono a rispettare, con puntualità, le scadenze trimestrali per il pagamento di buste paga e dei relativi contributi. Altrimenti scattano i punti di penalizzazione in classifica. L’effetto collaterale, è perverso: non si riesce a far fronte alle altre spese correnti, Così i debiti con i fornitori sono aumentati enormemente: dai 234 milioni di euro del 2008-09 ai 391 della scorsa stagione. Tutto questo è reso possibile dal fatto che difficilmente un fornitore porta in tribunale un club di calcio: è una questione di prestigio, di rapporti. Poi, però, con stupore, si scopre che dal 2011 il Parma non paga l’affitto dello stadio al Comune…
Si sa, il principale problema della Serie A è quello di essere teledipendente (nel senso degli introiti dei diritti tv, del campionato, ma anche della Champions). Il 58% del fatturato arriva da lì: 1.016 milioni. Poi c’è il commerciale, al 20% (349 milioni), ed infine lo stadio, a un misero 11% (197). Il resto fa parte di altri ricavi (192). Nelle altre leghe, quelle da prendere come esempio, Premier e Bundesliga, la diversificazione delle entrate è molto più equilibrata. Ma lì progettano il futuro.