L’ex allenatore del Milan e della Nazionale, Arrigo Sacchi, ha rilasciato alcune dichiarazioni ai microfoni di France Football dopo esser stato eletto come terzo migliore allenatore della storia.
Più che il piazzamento mi gratifica la motivazione: per aver contribuito a cambiare la mentalità del calcio italiano. Hanno preso in considerazione tre parametri, il management, il palmarès e l’innovazione. Dei primi dieci, nove sono innovatori.”
Sacchi, veda di contribuire nuovamente, con qualche indicazione. Si direbbe che ce ne sia bisogno.
«Il calcio italiano non vince perché non fa squadra. Ci riusciamo talvolta in situazioni tragiche. Per esempio, dopo la Seconda Guerra Mondiale abbiamo trovato l’unità di intenti e siamo diventati una delle prime potenze industriali. Per tornare al calcio, quando ci siamo coagulati intorno alla Nazionale abbiamo vinto due Mondiali. E’ una questione di storia, di cultura, di racconto».
Ardito il ponte tra storia e calcio.
«Io amo il mio piccolo mondo del pallone e sono convinto che, se cambiasse mentalità, potrebbe fornire un bell’esempio e un bel contributo alla vita sociale».
Dimostrando che cosa?
«Che una vittoria senza bellezza non è una vittoria. Che tra un tattico e uno stratega vince sempre lo stratega, come spiega Sun Tzu nell’Arte della Guerra. A meno che non ci sia un’enorme sproporzione di forze.”
Nel caso della Juventus e del resto del calcio italiano, c’è.
«Ma poi la Juventus va a giocare in coppa e viene fatta fuori da una squadra ben organizzata di bravi ragazzi, molti dei quali sconosciuti».
Com’è potuto accadere?
«La Juventus intesa come squadra ha un club strutturato alle spalle, una tradizione invidiabile e un allenatore tra i più bravi che ci siano. Un tattico sopraffino. Ma è pur sempre calcio italiano. Giochiamo con otto o nove uomini invece che con undici. Neppure coinvolgiamo il portiere, non abbastanza».
Detta così, sembrerebbe facile uscirne.
«Invece no, perché abbiamo paura. Questione di storia, di battaglie, di cultura appunto. E anche della narrazione dei mass media. Guardate le partite del nostro campionato o come si comportano le squadre che vanno all’estero: c’è sempre un giocatore in più che resta in difesa, se non due, rispetto al modo in cui attaccano gli altri. Quindi uno o due uomini in meno che partecipano al gioco. E a questi livelli essere dieci contro undici è letale. Ti girano intorno come fossi un bambolotto. Ci mancano stile e la voglia di cooperare». […]
Non ci sono maestri di calcio bravi in Italia?
«Almeno cinque o sei, solo in Serie A. Butto lì Gasperini e Di Francesco, ma non mi metto a nominarli tutti. Di Francesco non ha avuto la possibilità di portare avanti il suo insegnamento, a Roma. Non mi meraviglia. Qualsiasi tentativo di cambiare le cose deve partire dai club. A Milano guardavo la gente per strada, cercando di capire dove fossi finito. Vedevo come si muovevano gli ottantenni e pensavo: questi hanno il pressing nel Dna. Alcune società e alcuni luoghi per storia ed esperienze sono più pronti di altri a rinnovarsi. Però la pazienza manca a tutti».
Anche Klopp e Pochettino senza successi avrebbero problemi in Italia. O no?
«L’ambizione in un club è il carburante. Ti manda lontano, a tappe forzate. Però deve essere ambizione sana. Aver mandato Sarri a lavorare in Inghilterra è un peccato che al nostro calcio non mi sento di perdonare».