Gianluca Rocchi, arbitro internazionale, ha rilasciato una lunga e interessante intervista ai microfoni della Gazzetta Dello Sport.
Rocchi, cosa la spinse a iscri- versi al corso da arbitro?
«La passione per il calcio e la consapevolezza che da calciato- re non avrei combinato gran- ché. Giocavo a centrocampo, gli Allievi nella Cattolica Virtus, poi la svolta…».
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Oggi sarebbe lo stesso uomo se non avesse fatto l’arbitro?
«No, non avrei potuto trovare nulla di più educativo. Una pro- fessione che si basa sul rispetto delle regole, e insegna a relazio- narsi con gli altri. L’arbitraggio mi ha formato innanzitutto co- me uomo».
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Perché la definisce una pro- fessione? Lei che mestiere fa? «L’arbitro».
3Durante la settimana? «Potrei risponderle l’agente di commercio, o che lavoro nel- l’azienda di famiglia (che pro- duce lampade, ndr). Ma io riba- disco: l’arbitro. Sa quanti giorni all’anno trascorre fuori casa un internazionale? Duecento. Uno al primo anno di A? 130. Le sembra che in Serie B si giochi solo la domenica? E in Lega Pro, quante partita a settimana si fanno? Noi oggi siamo al 100% dei professionisti, immaginare che il nostro sia un hobby, è anacronistico. Do per scontato, magari esagerando, che su que- sto concordino tutti, anche nel- le istituzioni calcistiche».
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Lei che tipo di arbitro è? Au- toritario o dialogante?
«Spero autorevole… Sicura- mente un decisionista. Da gio- vane ero più burbero, invec- chiando sono diventato più dia- logante, ed è stato un bene. An- che i calciatori sono miglioranti tanto. La cosa più importante è il rispetto dei ruoli, e un arbitro per farsi rispettare deve essere equilibrato, sempre. Usare lo stesso metro, con grandi e pic- cole. Questo ti garantisce ri- spetto eterno. Non è facile, per- ché arriva sempre qualcuno che si lamenta, ma bisogna resiste- re».
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Cosa si prova a scendere in campo da… arbitro? «L’emozione più grande è l’in- gresso, soprattutto negli stadi pieni, per questo adoro il calcio inglese. Il boato del pubblico è una scarica di adrenalina, in quel momento pensi “che bello aver scelto di fare l’arbitro”. Do- po 5’ di gioco, quello stesso mo- mento lo maledici».
3Ora avete la Var…
«Già, l’avessi avuta ai miei tem- pi, quante notti insonni avrei evitato. Un arbitro, quando sba- glia, ci sta male. Ma è il modo migliore per crescere».
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Nella scorsa stagione, anche lei ha avuto un paio di inciden- ti…
«Vero, sono andato meglio al- l’estero. Quest’anno spero di fa- re bene soprattutto in A».
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Diceva della Var…
«Una ciambella di salvataggio, un modo per evitare di farsi male. Uno strumento, però, che va gestito nel modo giusto».
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Ci spieghi.
«La Var è un supporto all’arbi- traggio, non può essere il con- trario. Chi va in campo deve re- stare centrale, e per farlo deve arbitrare bene. Cosa significa? Prendere decisioni. Assumersi la responsabilità, senza tenten- namenti. Così il Var diventa marginale. Se invece non lo fac- ciamo, mandiamo in difficoltà il collega al video, perché gli diamo un onere eccessivo»