Pepe Reina, portiere del Napoli, ha rilasciato una lunga intervista alla rivista minuto 116, dove racconta della sua vita fuori e dentro al campo. Un Reina a 360° gradi, come mai prima. Ecco la sua intervista:
Un membro dello staff tecnico di Van Gaal raccontava che l’allenatore olandese restava sorpreso guardando un ragazzo che mangiava tre bistecche ad ogni pasto…
“E’ una leggenda metropolitana. Certo, mi piace mangiare bene, la mia famiglia lo adora ed in Andalucia lo si fa benissimo. Mia madre e mia moglie cucinano alla grande e mio nonno era uno chef… devo ammetterlo, è facile prendermi per la gola.”
Nel 1995 entrò a far parte del Barcellona, tanti calciatori come ad esempio Mata o Iniesta, descrivono quanto sia difficile lasciare la propria casa così giovani. Per lei fu più semplice visto che anche suo padre era un calciatore?
“Tutto parte dal fatto che sono tifoso del Barcellona ed il mio sogno è poterci giocare, un giorno. Feci dei provini senza sapere se realmente avessi intenzione di andar via, quando improvvisamente mi arrivò una telefonata: mi dissero che c’era un posto per me a La Masia. Avevo solo 13 anni, è ovviamente un’infanzia differente, mi mancavano tantissimo i miei fratelli ma andar via da piccolo è stata la miglior decisione che abbia potuto prendere. I miei genitori, inoltre, mi assicuravano un’istruzione al di là del fatto che diventassi calciatore oppure no.”
Cosa ti ricorda il nome Lorenzo Serra Ferrer?
“E’ una persona fondamentale, gli sarò grato per sempre. Ha creduto in me nel Barça, facendomi firmare il mio primo contratto da professionista e permettendomi di debuttare nella Liga.”
Fu difficile sentirsi a proprio agio in una squadra con calciatori del calibro di Rivaldo, Cocu ed un giovane Xavi?
“Mi ero allenato con loro, fui convocato due volte a 16 anni e quindi conoscevo lo spogliatoio e le sue stelle. Ma la cosa strana era vivere il quotidiano con loro, con i viaggi e tutto il resto. Per me erano idoli diventati improvvisamente compagni di squadra.”
Cosa ricorda del suo debutto nella partita contro il Celta Vigo? Perdevate 3-1 ed alla fine arrivò il pari, lei aveva solo 18 anni…
“Non me lo aspettavo, ero giovane ed oltretutto mi trovai a debuttare per l’infortunio di un compagno. Dopo l’adrenalina iniziale riuscii però a calmarmi.”
Nonostante il debutto nella stagione seguente tornò in panchina, come visse questo periodo?
“Ero felicissimo, avevo solo 18 anni ed ero nella prima squadra del Barcellona, mi godevo ogni momento. Ero immaturo, a volte sentivo che ogni domenica dovevo passare un esame che non mi consentiva di essere il portiere che sono oggi, ma sono grato al Barcellona, ho avuto la fortuna di giocare delle gare che mi sono servite tanto per il futuro della mia carriera.”
Passò al Villareal, per qualche calciatore potrebbe considerarsi un passo indietro…
“Lo era, lasciare il Barcellona vuol dire far sempre un passo indietro. Ma ero convinto di fare un passo indietro per poterne guadagnare due avanti, avevo bisogno di giocare con continuità per farmi un nome nella massima divisione. Il Villareal aveva un progetto in grande crescita con dei dirigenti molto seri, sono stato sempre a mio agio ed anche a livello di spogliatoio fu probabilmente il periodo migliore della mia carriera.”
L’avventura al Villareal le ha aperto le porte del Liverpool
“L’obiettivo era quello, avere possibilità di giocare in una grande squadra. La storia del Liverpool parla da sé, giocare ad Anfield ogni 15 giorni era un privilegio e con la mano di Rafa Benitez ancora di più.”
Da uno spogliatoio familiare come quello del Villareal ad uno pieno di stelle come quello di Liverpool…Cosa la impressionò di più di questo grande cambio?
“Una bellissima sfida, al Villareal eravamo abituati a lottare per entrare nelle competizioni europee e nella mia ultima stagione arrivammo terzi, che vuol dire aver vinto il campionato dei “terrestri”, escludendo cioè Barça e Real. Mi trovai improvvisamente in una squadra campione d’Europa giocando una Supercoppa ad agosto e sentendo la pressione di dover vincere titoli…”
Quandò arrivò Dudek era l’eroe della Champions eppure lei fu titolare dal primo giorno nei Reds. Si sentì in difficoltà?
“No, fui accolto benissimo nello spogliatoio grazie anche agli spagnoli come Morientes. Gerrard mi ha sorpreso, è un calciatore straordinario ed ho avuto la fortuna di essere suo compagno per 8 anni.”
Cosa ricorda del suo primo “You’ll never walk alone”?
“Una sensazione unica, guardare tutta quella gente ti dona un grande senso di responsabilità verso di loro.”
Qual è il miglior aspetto della cultura calcistica inglese?
“Il rispetto, anche quando le cose vanno male. Nessun calciatore vuole perdere, nel mio caso voglio dare sempre il 100% perché in questo modo a prescindere dal risultato la gente ti rende merito. In Spagna spesso non è così.”
Negli anni al Liverpool raggiungeste grandi traguardi, tra i quali un’altra finale di Champions. Sogna ancora Pippo Inzaghi?
“Passò tutto molto in fretta. Stai tornando a casa, vedi Maldini sollevare la Coppa e pensi: “Quello potevo essere io!”. Sono certo che la Champions ha un debito con la famiglia Reina, sia io che mio padre abbiamo perso una finale. Se non la vincerò io, lo farà mio figlio. E’ una sfida ancora aperta.”
Quest’anno ha un’altra possiblità…
“Bisogna essere realisti, col Napoli non si può puntare a vincere la Champions. Vogliamo qualificarci e fare un bel percorso, anche se sarà dura. Lotteremo fino alla fine.”
Come ha vissuto il calo del Liverpool negli ultimi anni?
“Mi è sembrato di giocare in due squadre diverse: una che lottava per i massimi traguardi, ed un’altra, con dei nuovi proprietari che hanno gestito la società facendo molti errori. Non è mai mancato, però, il sostegno dei tifosi, ed è questo ciò che fa grande il Liverpool. Anche nelle difficoltà ci sono sempre stati.”
L’addio di Rafa ai Reds fu duro da digerire?
“Per me tantissimo, mi ha dato fiducia sin dal primo giorno ed ho sempre detto che è il miglior allenatore che abbia mai avuto. Quando un club perde uno come lui è sempre una brutta notizia.”
L’esperienza nel club inglese le aprì le porte della Nazionale
“Fu per l’infortunio di Casillas. Ero nervosissimo ma riuscii a non subire reti, grazie all’affetto dei tifosi e dei compagni di squadra fu tutto più semplice.”
Cosa è cambiato dopo la disfatta Mondiale del 2006 nella Nazionale spagnola?
“C’è stato un cambio netto, la squadra ha trovato personalità ed uno stile di gioco preciso. Inoltre Aragones ha trovato il coraggio di mettere da parte dei giocatori che venivano considerati fondamentali per puntare sui giovani talentuosi. L’inizio non fu semplice, prima dell’Europeo del 2008 fummo costretti a sospendere un allenamento a Murcia per gli insulti dei tifosi. Non fu tutto semplice e bello.”
Crede che i tifosi si rendano conto di ciò che è riuscito a fare questo gruppo?
“Sono certo di no. Lo si potrà comprendere nel giro di 20 anni. Quando arriveranno tempi più duri ci si renderà conto che quello che abbiamo raggiunto non era per niente semplice.”
Disturba il fatto di essere spesso considerato in Nazionale solo come l’anima del gruppo e non per le sue capacità come portiere?
“A volte sì, ma ho un curriculum alle spalle e non credo si possa venire convocati in Nazionale per 9 anni di fila solo perché si è simpatici. Certo., coincidere con due portieri come Casillas e Valdes non mi ha consentito di totalizzare tante presenze, ma sono felice di poter essere loro compagno e spero di poterne fare altre in futuro.”
Crede sia a rischio il suo posto per il Mondiale in Brasile?
“Credo di no, sono cosciente di star facendo il mio dovere e sono tranquillo. Non credo ci sarà un cambio generazionale dopo il Mondiale, io stesso ho intenzione di continuare a far parte di questo gruppo.”
Dopo i festeggiamenti per i vari titoli le hanno assegnato l’etichetta di showman…
“Capisco le persone, ho fatto ciò che ho fatto e non me ne vergogno. Certo, che ti ricordino solo per questo non fa piacere, ma preferisco che mi si veda come una persona simpatica.”
Durante le celebrazioni per la vittoria nell’Europeo 2012 le lanciarono dagli spalti una maglia di Roque che ha indossato fino alla fine della festa
“Bisogna essere umili, noi calciatori siamo persone normalissime e passati i 15 anni della nostra carriera di noi si ricorda ben poco. Ho voluto condividere quel momento con la famiglia di Roque perché l’ho conosciuto al Liverpool se n’è andato via troppo presto. E’ stato un duro colpo.”
Come concilia la sua vita da padre di famiglia con quella da calciatore?
“E’ vero, a volte ci sono viaggi che ti tengono lontano ma godiamo di tanti privilegi. Io ad esempio posso accompagnare mio figlio a scuola alle 8 del mattino ed andarlo a prendere all’una del pomeriggio. Non tutti i padri possono, e mi sento fortunato. Senza la mia famiglia sarei nulla. Mia moglie è stata fondamentale nel mio percorso, mi ha aiutato ed appoggiato in tutti i momenti difficili della mia carriera. E poi i bambini ti fanno rendere conto di cosa davvero valga nella vita.”
Si racconta che lei abbia tante manie e dei riti particolari prima di ogni match, ce ne può raccontare qualcuno?
“E’ vero, e col passare del tempo aumentano! Ci fu un periodo in cui facevo il pieno alla mia auto prima di ogni match sempre dallo stesso benzinaio, oppure in altri casi seguivo un alimentazione precisa e scrupolosa fino ad arrivare a bere un bicchiere di vino la notte prima di ogni match. Lo so, posso sembrare pazzo…”
Conserva degli oggetti particolari della sua carriera?
“Sì, ho i tre palloni delle finali con la Spagna e più di trecento maglie che ho scambiato con tanti amici e colleghi nel corso degli anni.”
Il suo cognome ha influito nella sua carriera?
“Mio padre mi dice sempre che prima ero definito come “il figlio di Reina” adesso invece chiamano lui “il padre di Reina”. All’inizio magari poteva essere un peso, ma da tempo non è così e sono orgoglioso di avere questo cognome.”
Le piace che la sua famiglia venga ad assistere ai suoi match?
“Molto, ho la mania di chiamare i miei figli quando sono nel bus che porta allo stadio, sentire che va tutto bene e che sono emozionati come me. Mi piace immaginare che tra qualche anno possano ricordare “Cavolo, mio padre era lì!””
La nostra rivista, minuto 116, deve il suo nome al gol di Iniesta nella finale della Coppa del Mondo del 2010. Cosa ricorda di quei momenti?
“Fu incredibile, sembrava che tutto accadesse al rallentatore. Quel tiro racchiudeva tutta la storia del calcio spagnolo. Finalmente, saremmo diventati campioni… e poi chi meglio di Andres per metterlo a segno? Lui rappresenta l’essenza di questo gruppo. Ricordo che la corsa dell’esultanza fu lenta, non mi si muovevano le gambe. Che meraviglia avere quella coppa tra le mani, è un sogno che diventa realtà.”
L’ultima estate non è stata delle più semplici per lei
“Beh, in realtà sono stato ad Ibiza e mi sono divertito tantissimo! (ride, ndr). Scherzi a parte, è stato tutto molto inaspettato. Il Liverpool non è stato onesto nei miei confronti e mi è mancato un confronto faccia a faccia. A volte bisogna prendere delle decisioni che magari non fanno piacere alla tifoseria. Sono orgoglioso di aver scelto Napoli e del fatto che Benitez abbia deciso di puntare su di me. Dovrò tornare al Liverpool alla fine del prestito ma vedo molto remota la possibilità di essere di nuovo un loro calciatore.”
E’ stato allenato da grandissime personalità, ma c’è un tecnico con il quale le sarebbe piaciuto aver lavorato in particolare?
“Dico Pep Guardiola. I miei compagni mi hanno raccontato che con lui si può davvero imparare tanto.”