Nino D’Angelo, intervistato sulle colonne de La Gazzetta dello Sport dal figlio Vincenzo, racconta gli anni del derby del Sud tra Napoli e Roma, quando le due tifoserie erano gemellate e tra tifosi ci si chiamava “cugini”.
«È vero, ma sono invecchiato, esco poco. Mi spiace per esempio non aver mai incontrato Totti, il più forte giocatore italiano degli ultimi vent’anni e grande uomo. Però ho giocato tanti derby del cuore di beneficenza contro Bruno Conti, un altro re di Roma. E oggi sono amico di De Sanctis. L’ultima volta che ho visto Morgan abbiamo parlato un po’ di questa tensione che c’è tra le tifoserie, siamo d’accordo sul fatto che bisogna fare qualcosa».
«Di questa squadra conosco solo Insigne, l’unico napoletano. Poi mi fanno impazzire Higuain e Callejon, anche se dirlo adesso dopo i gol sbagliati a Bergamo in effetti stona un po’».
«Era l’anno del primo scudetto, girammo delle scene dentro e fuori dallo stadio, portai anche tuo fratello con me. Allora era tutto diverso, una festa del Sud, ci chiamavamo “cugini”. Roma e Napoli erano la risposta del meridione al potere del Nord. Due realtà molto vicine, due tifoserie che facevano della fede e l’amore per la maglia una ragione di vita. Ed era una festa».
«Non so come sia successo, ma di colpo le frange estreme dei tifosi hanno cominciato a covare odio. Napoli-Roma non è più una festa e dallo scorso maggio sarà sempre ricordata come la partita di Ciro Esposito. Non importa chi vince, perché quella maledetta notte del 3 maggio abbiamo perso tutti».
«Quella partita non si doveva giocare. I tifosi sono importanti come società e giocatori. Una squadra senza tifosi è come il calcio senza pallone. Non vale niente. Oggi c’è un’aria incazzata e menefreghista. Cosa hanno fatto le società in questi mesi? Niente. Mi aspettavo che organizzassero degli incontri tra le parti, coi giocatori più rappresentativi a metterci la faccia nel tentativo di rasserenare gli animi e mettere fine a questa assurda guerra».
«Ed è anche per questo che non sento più mia questa sfida. La morte di Ciro mi ha scosso troppo. La vita viene prima di tutto. La vita è vita, di un napoletano, come di un romanista o un veronese. Non si tocca. E invece tutto va avanti come non fosse successo nulla: il calcio è diventato un business, una questione di soldi più che di fede. Ai tifosi vendono gadget, maglie, pantaloncini, ma poi nessuno si preoccupa di loro».
«Ho tanti amici romani e romanisti, gente perbene e meravigliosa che incontro tutti i giorni. Come noi napoletani. La grande maggioranza dei tifosi è brava gente. E allora perché le società non scelgono qualcuno che li rappresenti? Responsabilizziamo i tifosi buoni e allontaniamo i violenti. Le società devono rappresentare i tifosi e i tifosi i club. Tutti responsabili delle proprie azioni. Coni e Figc dovrebbero fare delle leggi in questa direzione. Magari torneremo a riempire gli stadi e un papà potrà sentirsi libero di portare un figlio senza avere paura».
«Debutto al PalaPartenope con il nuovo spettacolo. Ma non ci sarei andato lo stesso. Non è più la mia partita».
«Sì, ma se il Napoli perde non parliamo di calcio». Deluso, ma in fondo sempre tifoso.