Nell’edizione odierna de ‘Il Corriere dello Sport’ ha rilasciato una lunga intervista il giocatore del Napoli Stanislav Lobotka.
Possiamo chiamarla don Andrés?
«Ma no! Lo so che in tanti mi accostano a lui ma
io, ovviamente, penso di essere un giocatore diverso. È bello essere paragonati a Iniesta, è una soddisfazione enorme, ma a tratti io ho
anche avuto l’impressione che tutti si aspettassero molto da me, e ciò può aver creato anche una forma di pressione. Però è fondamentalmente giusto che mi chiamiate Lobo».
Cosa è successo nei suoi primi diciotto mesi italiani?
«Non è facile rispondere, anzi è parecchio complicato. Ho vissuto un momento difficile, non giocavo, poi nel febbraio del 2021 ho avuto il primo dei due interventi alle tonsille. Ma comunque era venuta meno in me la fiducia, ero diventato improvvisamente triste».
E ha (pure) pensato di andar via?
«Certo che sì: perché chiunque resti sempre fuori a un certo punto si fa delle domande e può essere tentato di scegliere nuove soluzioni. Certi ragionamenti sono scontati, anche inevitabili: pensavo che Gattuso volesse un tipo di giocatore diverso, non trovavo spazio e quindi per me c’erano problemi. E l’idea di cercare un altro club l’ho avuta. Poi ho perso sei chili, è arrivato Spalletti ed è cominciata un’altra storia».
Ma Lobotka era già così forte, come poi si è visto, prima di venire a Napoli…?
«Questo non lo so, mi sembrava di essere in fiducia quando sono arrivato, ed ero ovviamente fiero della mia scelta, orgoglioso di aver attirato l’attenzione di una società del genere. Ma quella fiducia è sparita in fretta, perché i miei spazi si sono immediatamente ristretti. L’ho ritrovata quando mi è stata concessa continuità e il rendimento se n’è giovato».
Chi è il più forte nel mondo nel ruolo?
«Ce ne sono tanti, ognuno con le proprie caratteristiche, con la proprie differenze. E ogni allenatore ha le proprie preferenze. Ma se devo cercare riferimenti nello specifico, pur nelle diversità, adesso penso a Casemiro; e in Italia, mi piacciono Bennacer e Brozovic».
Da bambino chi voleva essere?
«All’inizio mi bastava semplicemente avere un pallone tra i piedi e divertirmi. Pensavo sempre al calcio, sognavo da grande di giocare la Champions, immaginavo di poter diventare ricco: ma quelli sono gli occhi di un fanciullo che ignorano la realtà o magari la osservano in maniera distorta. Una cosa è certa: non credevo, forse non credevano, che sarei mai arrivato a giocare in uno dei primi cinque campionati europei».
Il primo amore?
«Ronaldinho del Barcellona. Poi sono cresciuto, sono cambiato, ho interpretato il calcio attraverso nuove letture, le mie, quelle di un centrocampista, ho cominciato a restare incantato da Iniesta e da Xavi, poi da Modric e poi Verratti, tutti dello stesso livello, tutti di altissimo livello».
Può scegliere un solo idolo…
«E allora dico Xavi, probabilmente per la posizione che occupava. Ma dandomi una sola possibilità mi fa un torto…».
Quando ha capito che voi del Napoli eravate veramente una grande squadra?
«In ritiro. Erano andati via in tanti ma si vedeva e si sapeva che i nuovi avrebbero tenuto elevata la qualità. Poi nelle prime partite di Champions abbiamo avuto risposte importanti da noi stessi, è cresciuta la stima, ci siamo convinti della nostra forza, di ciò che Spalletti ci diceva».
E siete andati persino oltre…
«Abbiamo cominciato a giocare come nessuno si aspettava, è venuta fuori la personalità del gruppo. Spalletti è stato bravissimo a farci comprendere la sua idea di calcio, che già conoscevamo da un anno. E adesso siamo qua, contenti di ciò che stiamo facendo, della felicità che stiamo regalando. Ma siamo consapevoli che restano ancora troppe gare in campionato, che sarà vietato distrarsi, che converrà seguire le indicazioni del nostro allenatore: un passo per volta, partita per partita».
Esiste un segreto?
«Non so se è una chimica, certo una serie di fattori: la bravura di Giuntoli nello scegliere i calciatori giusti; la forza di Spalletti che ci migliora; la serenità che ci concede la società. Poi, c’è fame dentro ognuno di noi, vogliamo lo scudetto, vogliamo regalarlo ai nostri tifosi che sono fonte di energia dentro e fuori dallo stadio. E puoi anche non star bene in quel momento, puoi non sentirti nel pieno della tua condizione, ma quando avverti la passione della gente, devi riuscire a dar qualcosa in più».
La Champions cos’è ora?
«Vincerla è un sogno per tutti, quindi anche per me, ma sappiamo che è difficile, tanto. Ci sono grandi club e questo basta e avanza per definire lo spessore dei concorrenti. Ma noi non abbiamo nulla da perdere, giocheremo senza pressioni, non siamo come il Real Madrid che invece le avvertirà, e quindi saremo leggeri ma decisi. Se riusciamo a passare il turno, potrebbe succedere di incontrarli e noi li affronteremo – loro o chiunque altro – con la convinzione di potercela giocare. Il Napoli in finale non se l’aspettano».
Partite dallo 0-2 dell’andata, domani sera, e avete le mani sui quarti: risultato mai raggiunto dal Napoli ne suoi 97 anni di Storia.
«Non è fatta, perché queste gare di andata e trasferta nascondono insidie. Basta un gol per cambiare l’inerzia, per spostare l’equilibrio. L’Eintracht è squadra compatta, che ci proverà, ovviamente, e noi dovremo stare attenti».
Per lei è stato più importante Hamsik, una specie di «sponsor» per Lobotka su Napoli, o Spalletti che ti ha cambiato la vita?
«Posso dire entrambi? Marek è stato un modello per chiunque, un giocatore speciale, semplicemente un grande. E il mister mi ha concesso a Napoli l’opportunità di ricominciare, dopo una partenza complessa: penso che qui, ormai, in pochi credessero in me. Non era certo semplice. E lui non ha avuto dubbi».
Marek le ha spiegato Napoli…
«Nel dettaglio, con il cuore. Sapevo che sarei arrivato in una città meravigliosa, con gente innamorata della propria squadra, con una passione ineguagliabile. Sapevo che sarei stato amato da tifosi fantastici. Ho trovato analogie con la Spagna, dove sono stato…».
Tra un po’, scherzandoci su, potrà pure prenderlo in giro… «Lui qua ha fatto cose enormi, del secondo posto di quel Napoli si parla ancora. E comunque, dovesse andare come ci augu- riamo, io so che Marek sarà felice per me».
Quanto incide un allenatore?
«A volte poco, a volte tanto. Spalletti ha avuto un ruolo, anche abbastanza importante, è tra i tre mister che mi hanno indirizzato la carriera: gli sono grato per avere creduto nelle mie qualità e lo sono anche a Unzuè che mi ha guidato al Celta Vigo e a Hjulmand del Nordsjælland. Non dimenti- co ciò che hanno fatto per me».
Lei è un uomo fortunato: ha Kvaratskhelia e Osimhen davanti…
«Lo so».
E quindi, scelga: Kvara o Osimhen?
«Allora volete mettermi in imbarazzo…».
Un giochino.
«Osimhen è tra i primi quattro centravanti al mondo con Haaland, Lewandowsky e Benzema. Calciatori impressionanti, decisivi».
E Kvaratskhelia.
«Tra i primi tre esterni offensivi, con Vinicius e Mbappé».
E Lobotka è don Andrès?
«No, Lobo».
Però il profumo dello scudetto si avverte…
«Beh, non lo so, perché in Italia non l’ho mai annusato… Ma ormai cominciamo a sentirlo dentro. La sensazione che si avvicina è sempre più forte, gara dopo gara, dopo ogni vittoria».
La domanda che non si deve fare: ha firmato?
(sorride) «Diciamo che siamo a buon punto, stiamo chiacchierando. È chiaro che io voglio restare qua e senza ombra di dubbio».