Come in sequenza di diapositive il racconto di Roberto Mancini dalla penna di Bruno Marra. Condividiamo con piacere. Lo chiamavano Bobby gol, ma si sbagliavano, perché lui il gol lo odiava. Ed ogni volta che ne segnava uno non gli cresceva la gioia, bensì il rimpianto di non averne segnati altri prima, semplicemente perché se avesse voluto essere il numero 1 non ce ne sarebbe stato per nessuno.
Roberto Mancini negli Anni 90 era la rivoluzione calcistica, era la minigonna di Mary Quant, il rock di Elton John, la prima volta sotto le stelle. Perché per Mancio fu sempre la prima volta.
“Marchisciano” di Jesi, debutta in Seria A 16 anni nel Bologna. La mamma con la faccia uguale alla sua se lo accarezza, lui in campo fa il ragazzino sfacciato e impertinente che mostra il grugno pure al più consumato sergente.
Paolo Mantovani vince il Premio Nobel comprandolo a 4 miliardi di lire e la Andrea Doria riappare nel porto di Genova. Luca Vialli e Roberto Mancini sono la prima vera boys band che abbia visto l’alba in Italia, vivono nei poster appesi nelle stanze delle ragazzine e nel battesimo dei primi calci tirati per strada, quando non c’erano ancora i nomi sulla maglia.
Il 9 e il 10. Vialli faceva sforbiciate ed acrobazie che sembrava Nureyev, ma Mancio tacco e punta era elegante come Fred Astaire. E non gli piaceva segnare, lo trovava un gesto volgare e lo lasciava agli altri con l’albagia di un aristocratico. Segnava solo quando gli sembrava necessario, se capiva che i compagni non erano capaci più a farlo, o semplicemente a farlo come lui.
Dopo un gol, Vialli esultava facendo le capriole. Mancio no, teneva il muso e si rodeva dentro finchè non lo abbracciavano. Come quando con l’Italia nella prima partita dell’Europeo del 1988 contro la Germania la mise nell’angolo ed anziché esultare corse verso la tribuna stampa con il dito sulla lingua, quella linguaccia che tutti i giornalisti si dovevano tagliare prima di pronunciare il suo nome. Perché la Nazionale non è mai stata di Mancini. Per gli italiani c’erano Giannini, Baggio, Vialli, Schillaci, poi ancora Del Piero e Totti. Ma lui no.
Mancini era l’idolo di nicchia, il mantra di adepti scelti come carbonari e piduisti che avrebbero dato il sangue e la loro stessa vita per vedere trionfare quel numero 10. E così il suo trionfo era privato e unico. Unico e irripetibile come lo scudetto della Sampdoria.
Bobby gol diventò il genio della Lanterna. Ma dopo anni strappò con le sue stesse mani la leggenda. In un Samp-Inter del 1995 scatenò la fine del mondo nel crepuscolo di un pomeriggio orrendo. L’arbitro Nicchi (attuale designatore AIA) non gli diede un rigore. Lui si alzò e gli saltò addosso. La scena è ancora un tormento per Marassi, Mancini che urla e corre indiavolato per la caccia all’uomo e tutti che lo inseguono per braccarlo. Finchè Invernizzi, un suo compagno che si chiamava come un ragioniere della Val Brembana, lo bloccò e piangendo gli implorò: “vattene Roby, vaffanculo, ci stai rovinando”. In realtà stava rovinando se stesso, imbrattando un monumento che il popolo doriano voleva solamente innalzare al cielo.
Se ne andò veramente Bobby gol. Ma quando tutti pensavano che fosse finito, scrisse ancora il suo Mito. Il suo e quello della Lazio che con lui rivinse il tricolore dopo gli anni romantici in bianco e nero di Tommaso Maestrelli. E nonostante l’Italia fosse di nuovo ai suoi piedi, fece il giro dell’Olimpico come un dio malinconico. Perchè Mancio ce l’aveva ancora col mondo. Ed il mondo ricambiava volentieri con lo stesso slancio.
Un giorno Billy Costacurta, in una intervista celebrativa del miliardesimo scudetto vinto con il Milan, si tolse un peso dallo stomaco: “L’avversario che non ho mai sopportato è Mancini, è un testa di cazzo e non smetterà mai di esserlo”. Intanto Bobby gol smise col calcio e cominciò subito ad allenare, azzerando per primo davvero i confini tra campo e panchina.
Dicevano che alla Samp di Boskov il vero tecnico fosse lui e che alla Lazio “Svengo” Eriksson gli desse compiti di allenatore. E così il battesimo avvenne per partenogenesi naturale. Andò alla Fiorentina e gli montarono un caos enorme perché non aveva il patentino. Ma aveva la carta di identità che recitava: Roberto Mancini. Poi la Lazio e finalmente l’Inter, da Moratti che lo aveva sempre corteggiato da giocatore.
Vinse dopo Calciopoli, dopo la retrocessione della Juve e dopo aver urlato: “ci hanno preso per il culo da anni, rivoglio dietro gli scudetti rubati”. Altro finimondo, prima che la bega si trascinasse addirittura in Parlamento. Con l’Inter arrivarono gli scudetti sul campo, ma finì male dopo una eliminazione in Champions con il Liverpool di Rafa Benitez: “Io qui non allenerò più” disse il Mancio che trovò aria fresca in Inghilterra. E ancora una prima volta. Il Mancity con lui vince lo scudetto dopo oltre 40 anni, all’ultimo minuto.
Roby torna in Italia con lo stesso ciuffo di quando era il golden boy degli Anni 90. Stavolta non ha il jeans e la felpa da paninaro, ma l’abito da Lord Brummel e cravatte firmate Marinella. Per rompere quel giuramento che aveva fatto: “mai più all’Inter”. E invece si è rimesso con la Beneamata vestendo l’aura più del salvatore che dell’allenatore, ma ha finito per recitare come un guitto al Derby di Milano chiudendo tra i fischi un triste sipario. In un solo giorno, come sa fare lui. Ma questo è il Mancio e questa è la sua storia, quella che si ama o si odia. Anche oggi che il Lord inglese si è rimesso l’abito borghese. Il genio capriccioso e rivoluzionario che si è riscoperto all’improvviso un perfetto italiano…medio.
Fonte: Bruno Marra dal suo profilo facebook