Un tunnel buio che si impossessa con violenza del tuo cono visivo. Un percorso che rende la capacità del pensiero una gelida cartolina di un paese fatiscente. Un salto nel vuoto che toglie dalla propria portata il raggiungimento di qualsivoglia appiglio.
E’ lì, può colpire chiunque. E lo può fare con il cinismo della più inguaribile delle malattie. La depressione non ha età, non ha classe sociale, non ha sesso, non ha ambito lavorativo.
Robin Williams ci ha lasciato, non ha retto alle pressioni di un mondo che gli ha dato tutto, tranne un guscio per l’anima. Robin Williams non ha retto ai dolori della vita, o meglio a quelli che lui ha percepito come tali. L’ennesimo percorso di sofferenza terminato nel dramma. Dolore, inadeguatezza, sofferenza. Termini, parole, sensazioni, tormenti che si sono insediati anche lontano da palcoscenici televisivi e cinematografici.
Nemmeno il rettangolo verde ne è stato esente. Da Gascogne a Cicinho, da Adriano a Walter Casagrande, Da Agostino di Bartolomei a Gianluca Pessotto. Armigeri veri in battaglia, frali nell’intimo del proprio “io”.
Storie di disagio, storie specchio di un mondo che forse necessiterebbe di qualche correttivo.
“Saltatemi pure addosso, gettate su di me la vostra furia: vi vincerò sopportandovi”, diceva Seneca. Non si riferiva alla pressione esercitata dal set cinematografico, e nemmeno alla bolgia di spettatori dinanzi alle quali si sono espressi i suddetti campioni dello sport. Bensì ai dolori della vita.
Robin Williams non li ha sopportati.
Ciao Robin. Ci hai fatto ridere, ci hai fatto piangere, ci hai deliziato.
Per essere felici nella vita non bastano gli agi. Forse tu, come tutti coloro che hanno la sensibilità spessa come un plinto, eri un fervente sostenitore della teoria del benaltrismo.