L’andamento è quello, in costante ribasso. Il trend è in dubbiamente negativo. Le prestazioni sono lì, sotto gli occhi impietosi di tutti.
Le partite si alternano ciclicamente sempre con lo stesso copione emozionale: un cartellone elettronico che si alza, il numero 17 che inesorabile gli obbliga di uscire dal campo, timidi applausi dagli spalti che col passare del tempo si sono trasformati in sempre più incalzanti fischi, un capo chino che termina la sua corsa sul bordo di una panchina.
Giusto il tempo di ricaricare le pile del fisico e provare a ricaricare quelle psicologiche, ed ecco che arriva l’ennesima prova sul campo, l’ennesima occasione che cambia rapidamente le sue credenziali: da potenziale riscatto ad ennesimo fardello.
Gli inizi delle gare sono sempre abbastanza promettenti, ma basta una palla persa alternata ad una sbagliata, basta un tempo trascorso senza mettere a segno una rete, ed ecco che lo spettro dell’ennesima prova scailba, e dell’ennesima conseguente sostituzione, prende corpo frettolosamente.
Marek Hamsik non è più lo stesso. Marek Hamsik non è più lui.
Lo slovacco non riesce ad uscire da un tunnel che è ormai lungo come quello del Monte Bianco ma è di colore opposto, nero.
Le aspettative sono divenute altissime, l’ “occhio di bue” è puntato tutto su di lui. Subito dopo la vittoria della squadra del cuore, la gente aspetta la sua prestazione, il suo riscatto.
Ma la tenuta mentale di Marek scricchiola. La pressione accusata è più forte della capacità di reazione, e ne frena genio, spunto, finanche il ritmo delle gambe.
Al cospetto di ottime qualità tecniche, il campione lo fa la testa. Ed a Marek Hamsik è rimasto pochissimo tempo per dimostrare che la sua non è solo quella di un buon giocatore.