Un articolo del Sole 24 Ore, scritto con la collaborazione di Fausto Panunzi, professore di economia all’Università Bocconi sostiene che il calcio non sarà più una esclusiva questione di campo, ma lascerà sempre più spazio alle politiche sportive.
Nulla di nuovo, considerato quanto già successo in passato, visto che negli ultimi 40 anni, numerose sentenze hanno cambiato il mondo del calcio. Partiamo dal “principio”: fino al 1981, esisteva un rapporto giuridico chiamato “vincolo sportivo”, che legava indissolubilmente i calciatori alle società. Queste ultime avevano la facoltà di trattenere, o cedere, un calciatore anche senza il suo consenso. In parole povere, gli atleti non avevano alcuna voce in capitolo circa il proprio futuro.
Il 1981 è una sorta di anno zero, a causa dell’emanazione della legge numero 91, che eliminava, appunto, tale vincolo, trasformandolo in rapporto speciale, dalla durata contrattuale massima di cinque anni, ovviamente rinnovabili. Nel 1995, invece, fu il turno della “sentenza Bosman”, che permetteva ai calciatori dell’Unione europea di trasferirsi, gratuitamente, al termine del contratto in un’altra squadra, appartenente ad un campionato di uno stato membro dell’UE. Questa sentenza fu ampliata, nel 2006, tramite la “sentenza Webster”, che permetteva anche a giocatori ancora sotto contratto, fuori del periodo di protezione di 3 anni, di potersi svincolare dietro pagamento di un indennizzo alla squadra proprietaria del cartellino. Tutto ciò ha contribuito all’aumento, esponenziale, dei costi.
Un’altra rivoluzione è dovuta all’avvento delle televisioni e, in particolare, dell’emittente satellitare Sky. Basti pensare che, nell’ultima stagione, il 45% dei ricavi dei primi 20 club europei è legato ai diritti televisivi. Interessante diventa il confronto tra la classifica Deloitte Football Money League del 2016/2017 con quella del 2006/2007, dal quale emergono, sostanzialmente, due aspetti molto interessanti.
Il primo riguarda la top 10: ben sei squadre hanno mantenuto il proprio posto nell’élite, mentre, delle quattro squadre uscite dalle prime dieci, ben tre sono italiane (Milan, Inter e Roma). Il secondo aspetto, invece, riguarda i fatturati: nel 2007, in vetta alla classifica c’era il Real Madrid, con 351 milioni di euro di ricavi, mentre in decima posizione troviamo la Roma, con i suoi 157 milioni. Dieci anni dopo, invece, a comandare è il Manchester United, con 673 milioni, e la decima potenza è la Juventus, con ricavi pari a 405 milioni.
Tutte queste manovre hanno avuto un effetto “asimmetrico”, dal momento che hanno aumentato ulteriormente il divario tra i club di prima fascia e quelli più piccoli. In alcuni casi, si è arrivati addirittura al fallimento di squadre storiche con buoni bacini di pubblico, come i recenti casi del Modena e del Vicenza. C’è stato anche un “abbandono” del calcio dilettantistico, fatto da diminuzione del pubblico e dell’interesse degli sponsor: molte squadre, ormai, fanno fatica ad iscriversi ai campionati o, addirittura, sono costrette ad “abbandonare la nave” a stagione in corso.
Ci sono state anche alcune eccezioni, come quella rappresentata dalla famiglia Pozzo, proprietaria dell’Udinese, che negli ultimi trent’anni ha prodotto plusvalenze per 650 milioni di euro. I Pozzo hanno deciso di investire anche in altri club come il Granada, club della terza divisione spagnola portato in massima seria prima della cessione alla cordata cinese Desport, e il Watford, del quale ha aumentato il fatturato dai 18 milioni del 2015 ai 94 dell’anno successivo. Ma si tratta, purtroppo, di casi sporadici.
La UEFA ha provato a mettere un freno al potere dei top club introducendo, nel 2009, il Financial Fair Play, non privo di lacune, come abbiamo visto la scorsa estate, con il Paris Saint Germain che è riuscito ad arginarlo in occasione degli acquisti di Neymar e Mbappè.
Dove si arriverà dunque? Si riuscirà ad introdurre un salary cap, analogamente a quanto avviene in NBA, o, come prevedibile, le super potenze vi si opporranno? Ci sarà la creazione di una Super Lega Europea? Quel che è certo è che, per i poteri deboli, non c’è da essere ottimisti.