Marek Hamsik, nella sua autobiografia dal titolo “Marekiaro”, ha parlato anche del suo possibile trasferimento in Cina della scorsa estate. Ecco alcuni passaggi salienti.
“Napoli è per me la vera capitale dell’Italia e ogni volta che immagino di partire per un’altra esperienza mi prende subito la nostalgia. È strano, ma è come se questa città fosse attaccata a me con una calamita. Stavolta, però, avevo quasi deciso di andare da un’altra parte. La delusione bruciava, dopo un campionato straordinario, in cui abbiamo raggiunto il record di punti della società ma non il tanto atteso scudetto. Mi sono detto: forse a 31 anni è giusto darsi una nuova possibilità. Sentivo di aver dato tutto per una maglia che ho sentito addosso come una seconda pelle, dopo una stagione grandiosa per la squadra ma che non mi ha visto protagonista al meglio delle mie possibilità. In quasi tutte le partite ho ceduto il posto a gara in corso e – pur rispettando sempre le decisioni dell’allenatore – ho vissuto momenti di grande sconforto. In certi casi, come ho spiegato, mi sono pure incazzato”.
“Alla fine della stagione però ho meditato sull’opportunità di regalarmi qualcosa di diverso. Non ho mai considerato i soldi e le opportunità calcistiche che mi offrivano da altre parti, mi sarei sentito un traditore. Ma in Cina, un mondo estremamente affascinante, avrei potuto andarci senza tradire nessuno. Non avrei mancato di rispetto al mio Napoli”.
“Non sono il capitano solo perché indosso la fascia in campo: mi sento realmente una bandiera di questa città, e non avrei mai potuto giocare con una maglia diversa in Italia. Andando via avrei deluso prima di tutto me stesso, e poi i tifosi del Napoli. Nell’ultimo mese di campionato ho tenuto il conto delle mie presenze con il Napoli, con cui non salto una partita da più di tre anni. E ho rivisto mille volte il film meraviglioso dei miei undici anni in questa città. Cinquecentouno, 501: un numero tondo che i miei figli mi hanno ripetuto più volte e che Martina, un giorno di fine giugno, mi ha messo davanti agli occhi, scritto su un foglio di carta. Era un modo, quello di mia moglie, per dirmi ancora una volta che Napoli poteva, anzi doveva, continuare a essere la nostra casa, azzurra e vincente”.
“Non voglio fare il moralista e sì, lo dico apertamente: il denaro che avrei guadagnato in Cina era davvero tanto, un’assicurazione sulla vita a molti zeri. E un’esperienza in un altro mondo, anche calcistico, mi intrigava non poco. Con Martina avevamo già deciso: in Cina sarei andato da solo. In realtà avevo bisogno di vacanza, dovevo smaltire la stanchezza mentale per una stagione entusiasmante ma tesissima, che sicuramente ci aveva tolto tante energie. Mentali e fisiche. Credevamo tutti allo scudetto, lo volevamo più di ogni altra cosa e ci è sfuggito per un soffio. E chissà che l’idea di cambiare aria, prima impensabile, non sia maturata anche per questo. Ma per un paio di settimane ho cercato di non pensarci, siamo partiti per le vacanze, non prima di ricevere la telefonata di Carlo Ancelotti, però. È stato gentile, garbato, però non mi ha condizionato. Siamo andati al mare con i bambini senza più pensarci”.
“Quando poi ho saputo che di offerte dalla Cina non ne erano arrivate, o che comunque non avevano soddisfatto le richieste del Napoli, è come se avessi avuto un’illuminazione. Anziché rammaricarmi, mi sono ritrovato a gioire. E negli occhi della mia famiglia leggevo felicità. Avevo chiesto al destino di decidere per me, ma la reazione che ho avuto e l’emozione che ho provato mi dicevano ancora una volta che la vera scelta l’aveva fatta il mio cuore. Abbiamo brindato bevendo una birra con gli amici in spiaggia, mi sentivo in pace. Felice e pronto all’anno numero dodici. Sono tornato in Slovacchia nella mia nuova casa, e a mio padre Richard, che come è noto un po’ aveva spinto per vedermi con la maglia di una squadra cinese, ho detto: “Napoli non mi vuole lasciare andar via. E io sono contento”. I genitori hanno sempre uno sguardo un po’ più lungo, e il nostro è un mestiere che ti fa guadagnare molti soldi, ma tutto si concentra in dieci, al massimo quindici anni. Papà ricorda bene i tempi in cui aveva fatto debiti per permettermi di giocare. È una dimensione in cui resti anche quando le difficoltà sono superate. Ma ormai, davanti a un altro bivio, è andata come doveva andare. Ho chiamato Ancelotti: “Mister, sono a tua disposizione”.