L’ Irap, da un punto di vista fiscale, ha rappresentato, da sempre, una di quelle imposte sempre oggetto di critiche.
Oggi, con l’avvicinarsi dell’approvazione della Legge di Stabilità, è nuovamente al centro dei dibattiti, anche nel mondo del calcio. Per le società di calcio professionistico, infatti, la legge di Stabilità per il 2015, se approvata nella formulazione appena presentata dal premier Matteo Renzi, riserva sorprese amare. Non solo non godranno del beneficio del taglio della componente costo del lavoro dall’imponibile Irap, ma anzi, dovranno pagare un’imposta ancora più salata. Lo sconto Irap, annunciato in Finanziaria, infatti, è riservato ai dipendenti (e in calciatori, se pur anomali, lo sono) assunti con contratto a tempo indeterminato. Condizione, questa, che non attiene invece ai calciatori, per i quali è possibile al massimo un contratto di 5 anni, quindi strutturalmente a tempo determinato.
D’altro canto, la stessa Finanziaria, sempre nell’ottica di privilegiare il lavoro a tempo indeterminato, elimina lo sconto del 10% sul cosiddetto “cuneo fiscale”, riportando l’aliquota Irap dal 3,5 al 3,9 %, per le società che hanno in organico lavoratori a tempo determinato. Un aggravio per un settore, quello del calcio, che dovrà anche fare i conti con la “tassa sulla sicurezza” disposta con la conversione del Dl stadi, una cifra da 2 a 6 milioni di euro destinata a coprire i costi degli straordinari delle Forze di Polizia che prestano servizio durante le partite, e con la riduzione ed il taglio imposto dal Coni di circa il 40% alla FIGC.
I club italiani, versano, mediamente, circa 40 milioni all’anno di Irap. Circa l’80%, è collegato al costo del lavoro dei calciatori (il resto dell’Irap si paga sul personale non tesserato, sugli oneri finanziari e in qualche caso sugli utili). Calcoli alla mano, la mancata riduzione dell’aliquota Irap, per i club, ammonta ad oltre 30 milioni. Con buona pace di società come Juventus e Milan che, a chiusura degli ultimi bilanci, hanno sottolineato come il rosso dei loro bilanci fosse dovuto proprio alla tassazione eccessiva dell’Irap. Nella nota al progetto di bilancio al 30 giugno 2014, la Juventus ha sottolineato, per esempio, “il pesante effetto negativo dell’Irap (7,2 milioni nell’esercizio 2013/2014 e 5,9 milioni nell’esercizio precedente) che penalizza fortemente le imprese con alti costi del personale (indeducibili ai fini di tale imposta), dando origine ad un prelievo fiscale non correlato all’effettivo andamento economico complessivo delle imprese stesse. Nel caso dell’esercizio in esame, chiusosi con un utile ante imposte di 0,1 milioni, l’Irap ha addirittura determinato la perdita a livello di risultato netto”.
L’AD del Milan, Adriano Galliani, in occasione del rendiconto al 31 dicembre 2013, ha denunciato come “il gap con i grandi tornei continentali si sta allargando anche perché scontiamo ritardi normativi, come la legge sugli stadi, e carichi tributari altrove sconosciuti. Pensate che abbiamo dovuto pagare l’Irap, un’imposta che vige solo in Italia, per oltre 7 milioni di euro, anche sulle plusvalenze”, chiudendo appunto il bilancio con una perdita di 6,9 milioni.
Proprio il problema della tassazione dell’Irap sulle plusvalenze, ha determinato, una batosta non da poco, per quelle società, tra cui il Napoli, che con le plusvalenze, hanno sempre “giocato” in termini di bilancio.
L’agenzia delle Entrate segna un goal che potrebbe valere anche una stagione. il Consiglio di Stato che, con il parere n. 5285 dell’11 dicembre, chiarisce che «le eventuali plusvalenze realizzate in occasione della cessione dei contratti di prestazioni sportive dei calciatori siano da prendere in considerazione in sede di determinazione della base imponibile Irap».
Non inganni il fatto che dal 2008 la tassazione Irap deriva dal bilancio e dunque non desta più preoccupazioni né dubbi interpretativi per le società sportive, perché le plusvalenze, quelle che contano e che pesano sui bilanci, sono state realizzate negli anni precedenti. Ed è proprio su queste poste che il fisco ha messo gli occhi già dal 2001.
È noto, infatti, che il calcio italiano all’inizio del nuovo secolo ha fondato il suo equilibrio patrimoniale proprio sulle plusvalenze realizzate con la cessione, non solo di top player ma soprattutto di una miriade di calciatori “in erba” e spesso sconosciuti alle cronache. Si trattava di operazioni spesso permutative, quindi senza scambio di denaro ma con trasferimenti incrociati di calciatori. Che se da una parte davano un saldo finanziario pari a zero, dall’altra consentivano alle società una significativa plusvalenza nel bilancio (chi vendeva realizzava la plusvalenza immediatamente chi comprava spalmava il costo in cinque anni come prevedono i regolamenti sulla durata del contratto dei calciatori). Un meccanismo “strano” che ha consentito a molte società di avere valori dell’attivo (dei calciatori) assolutamente esorbitanti. Non solo. Per salvare il giocattolo del calcio, lo stesso meccanismo ha spinto il legislatore ad “inventare” il principio ad hoc dello spalma-debiti consentendo una diluizione nel tempo degli effetti sui bilanci di queste plusvalenze. Fenomeno, che per i tifosi del Napoli, è di grande attualità, visti i casi Lavezzi, Cavani etc.
Il fisco, come detto, è su queste diverse centinaia di milioni che ha focalizzato la sua attenzione prima, avviando un’azione di accertamento mirata e successivamente portando avanti la propria tesi impositiva nei diversi gradi di giudizio.
L’Irap, per il Consiglio di Stato, dunque, finirà per produrre i suoi effetti proprio sulla molteplicità dei contenziosi accesi in tutta Italia. Da una parte ci sono le società di calcio secondo cui le somme incassate dalla cessione di contratti di prestazione sportiva vanno considerate esenti dall’Irap.
Dall’altra, c’è l’amministrazione, per la quale il tributo regionale è sempre dovuto. Le tesi contrapposte secondo i giudici amministrativi sono due: il trasferimento dell’atleta va inquadrato nell’ambito della figura tipica della cessione del contratto; viceversa il trasferimento rappresenta un’estinzione del contratto originario con contestuale costituzione di un nuovo rapporto.
Il Consiglio di Stato condivide la prima posizione, secondo cui, con la cessione del contratto, viene di fatto ceduto il diritto all’utilizzo esclusivo della prestazione dell’atleta verso corrispettivo: «Diritto integrante bene immateriale strumentale – si legge nel parere – all’esercizio dell’impresa, sia sul piano tributario, poiché ammortizzabile, sia su quello civilistico, in quanto necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale».
Oggetto del contratto tra società sportiva e atleta è il diritto alla prestazione sportiva esclusiva. Con la cessione del contratto la società cessionaria acquista, quindi col consenso dell’atleta, il diritto oggetto del contratto e succede in tutti gli obblighi e i diritti connessi.
E’, quindi, meno conveniente cedere atleti puntando sulle plusvalenze, e, per la prima volta, una tassa, forse, potrà garantire, ai fini del mercato, minori cessioni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA