Una notizia drammatica ha sconvolto, questo pomeriggio, tutto il mondo del calcio e dello sport in generale: Diego Armando Maradona è morto.
Un fulmine a ciel sereno, la notizia pubblicata dal quotidiano Clarin, che prima di tutti ha annunciato la scomparsa del Pibe de Oro, poche settimane dopo quel 30 ottobre, in cui tutti stavamo celebrando il suo 60esimo compleanno. Come un profeta, volato via dopo aver diffuso il suo messaggio e aver insegnato calcio in ogni dove.
Per molti è stato il più grande calciatore di tutti i tempi, e la cosa più vicina a Dio che sia mai apparsa in questo mondo. Senza alcun dubbio è stato tra i più grandi artisti ad aver mai calcato un campo da calcio, come solo Pelè, Johan Cruyff e Lionel Messi.
Ma ciò che Maradona ha rappresentato trascende il lato meramente sportivo e sfocia nel sociale, nell’ideologico. Perché Maradona è stato più di un semplice calciatore.
Maradona è stato un simbolo, un idolo, e uno dei principali rappresentanti della classica lotta della working class ai poteri forti. Cresciuto tra gli stenti nella piccola cittadina di Villa Fiorito, praticamente in una bidonville, tra mille difficoltà, che hanno, tuttavia, contribuito a temprare quel ragazzino dai tratti Indios, dimostrandosi fondamentali nel rafforzarne il carattere. Un’infanzia sicuramente difficile, ma resa più dolce dall’amore della sua famiglia, di suo padre don Diego, che tanti sacrifici ha fatto per il futuro dei suoi figli, e di sua madre Dona Tota, e dalla passione per il calcio, una via di fuga e un mezzo per sognare, un giorno, di disputare i campionati del mondo con la sua Nazionale.
Lui, l’hombre del pueblo che non ha mai dimenticato le sue umili origini e che ha avuto il merito di rappresentare due popoli, così lontani eppure così simili, guidandone la rispettiva riscossa: quello argentino e quello napoletano.
Impossibile non averlo visto, anche solo in video, in azione al Mondiale del 1986, in Messico, quando, il 22 giugno, come un’entità superiore, schiantava la Nazionale inglese, prima con un beffardo tocco di mano, la Mano de Dios, e successivamente con l’azione che lo ha consegnato, definitivamente alla storia.
Il Pibe, partendo da centrocampo, saltò mezza squadra britannica, compreso il portiere Shilton, per poi depositare il pallone in rete e realizzare il gol del secolo, e il più bello della storia del calcio. “Barrilete cosmico, de que planeta viniste?” (“Aquilone cosmico, da che pianeta sei venuto?”) urlava, in estasi, il radiocronista uruguaiano Victor Hugo Morales, visibilmente emozionato e commosso nel raccontare un’azione di simile bellezza. Una rivincita per tutto il popolo argentino, che proprio dagli inglesi aveva subito una pesante sconfitta in ambito bellico, per il controllo delle Isole Falkland (o Malvinas), in cui persero la vita 649 sudamericani. Rivincita culminata, una settimana più tardi, nel trionfo in finale contro la Germania: la realizzazione del sogno di un bambino.
Ma altrettanto note sono le immagini, risalenti al 5 luglio del 1984, del suo sbarco a Napoli e della sua presentazione ufficiale in quello che sarebbe presto diventato il suo tempio: uno stadio San Paolo stracolmo, pronto ad accogliere il suo nuovo Re.
Un Re che, nel corso degli anni, avrebbe portato la squadra azzurra alla conquista di due, storici, Scudetti (nel 1987 e nel 1990) oltre a una Coppa UEFA, ribaltando le gerarchie e sovvertendo il potere delle grandi del Nord, in particolare Juventus e Milan, cadute sotto i colpi di Diego e dei suoi fidi scudieri. Un amore, quello per il popolo partenopeo, mai tramontato e, anzi, sempre ricordato, anche negli anni a venire. Basti pensare al documentario dedicato alla sua esperienza da allenatore in Messico, nel quale Diego, commosso, canta “O’ surdato ‘nnammurato”.
Che avesse qualcosa di mistico è testimoniato anche dall’idolatria nei suoi confronti: non è un caso la fondazione, a. Rosario, in Argentina, della Iglesia Maradoniana (la Chiesa di Maradona), che raccolse sempre più “fedeli”, tra cui anche alcuni calciatori come. Michael Owen, Ronaldinho e Juan Roman Riquelme, altro grande numero 10 della storia albiceleste.
Oppure il famoso altarino situato a Napoli, contenente, in una teca, una foto (rigorosamente in maglia azzurra) e addirittura un “sacro” capello del fuoriclasse argentino.
Non è stato un santo, anzi, magari un Dio peccatore, ma non ha mai fatto mistero dei suoi errori: una vita fatta di genio e sregolatezza, proprio come quella di un altro grande genio calcistico, George Best, volato via anche lui, per ironia della sorte, il 25 novembre, di ormai quindici anni fa. Ma non siamo qui per fare un processo a Maradona, ma, piuttosto, un elogio sentito ad uno dei più grandi sportivi del ventesimo secolo, che rientra nel novero dei grandissimi insieme a personalità del calibro del fu Cassius Clay, Mohammed Alì, e di Michael Jordan.
“Quando stavo bene, in campo, sapevo di poter fare qualunque cosa” ha sempre ripetuto Maradona anche in tempi più recenti, ed era vero. Un genio del calcio, capace di far sognare milioni di appassionati grazie ad un talento fuori dal comune, dono di un Dio che, ci piace pensare, glielo abbia affidato, dicendogli: “Vai e insegnalo a tutti”. Un fuoriclasse assoluto, un artista che dava il meglio di sé in campo, nel suo Olimpo. D’altronde come avrebbe potuto un Dio sentirsi a suo agio fuori dal rettangolo di gioco, ovvero nell’habitat naturale dei comuni mortali.
Oggi il profeta ci ha lasciati. L’aquilone cosmico ha spiccato il volo. Probabilmente per tornare sul suo pianeta d’origine, da cui sessant’anni fa era planato giù per realizzare il suo destino. Destino che lo ha poi consegnato alla leggenda. “Ciò che facciamo in vita, riecheggia per l’eternità“, e quanto fatto da Diego lo ha davvero reso unico ed immortale.
Buon viaggio, Barrilete cosmico.
Grazie Diego.