Marek Hamsik lascia Napoli dopo 12 stagioni. Ripercorriamo la sua carriera, i suoi record e com’è diventato il simbolo della squadra azzurra.
E’ difficile. Dannatamente difficile.
La gola si stringe in un nodo che rende impossibile parlare. Nella testa si affollano immagini, fotogrammi, domande senza costrutto e senza risposta, rendendo difficile ordinare i pensieri. Ti sforzi di non piangere, fallendo miseramente. E resta solo una frase che rimbomba nell’anima, come un petardo scoppiato nel cuore e l’urto si ripercuote in un guscio vuoto ma compatto, compresso. E’ paradossale. Scriverne, magari, può aiutare ad accettarlo, a renderlo vero. Oggi, con ogni probabilità, dopo 11 stagioni e mezzo in azzurro, Marek Hamsik lascerà il Napoli per la Cina. Tanti milioni, 9 per tre stagioni, una pensione meritata, un addio nel silenzio, in punta di piedi, senza disturbare ed un futuro al Dalian. Bisogna accettarlo in qualche modo e, forse, prima o poi diventerà normale non vederlo più in campo. Forse.
Dodici anni sono quasi metà della vita di chi vi scrive. Sono tutta la coscienza da tifoso di chi si è perso Maradona e ha vissuto la rinascita del Napoli di De Laurentiis. E per dodici anni c’è stata una ed una sola costante: Marek Hamsik. Un simbolo, il Capitano, il giocatore che “se non c’è là in mezzo non si capisce niente”, capro espiatorio e condottiero, bersaglio e salvatore allo stesso tempo, l’uomo che ha alzato tutti i trofei vinti dagli azzurri nell’era post-Diego. Come fai a spiegarlo? Come fai a raccontarne l’addio? Come, senza risultare retorico o sterile? Magari provando a raccontarne la storia dall’inizio.
28 giugno 2007. Un ragazzo di 19 anni che sembra essere stato rapito da una scolaresca in gita a Piazza del Plebiscito è in piedi al fianco di Pierpaolo Marino ed Ezequiel Lavezzi per mettere la firma su un contratto e mostrare la sua nuova maglia, quella del Napoli. Ha i capelli ritti in una cresta appena accennata, una t-shirt, un pantaloncino e le infradito ai piedi. Le infradito. Ad una presentazione ufficiale. Tra lo scetticismo generale ci si dimentica di tutto quello che lo riguarda. Dal Dolna Strehova allo Slovan Bratislava. Poi a Brescia dove a soli 19 anni gioca 45 partite con 11 gol. Ma non ci pensa nessuno. Ed è normale: 5 milioni e mezzo per un ragazzino che si presenta in infradito per un’intuizione di Pierpaolo Marino.
Nel primo anno in Serie A, Hamsik ha 20 anni e si presenta così: gol all’esordio (Coppa Italia, contro il Cesena), prima doppietta in Serie A (contro la Lazio) e capocannoniere della squadra in campionato con 9 gol senza rigori. L’anno successivo arriva anche la prima rete in Europa, contro il Panionios in Intertoto ed è il Miglior Giovane agli Oscar del Calcio. Dopo gli esordi con Edi Reja e la parentesi con Donadoni, arriva Mazzarri che lo sposta sulla trequarti e Marek segna una doppietta nel 3-2 con cui il Napoli batte la Juventus a Torino dopo 21 anni. Il 13 marzo 2010, nella gara contro la Fiorentina, indossa per la prima volta la fascia di capitano: a 22 anni e 229 giorni diventa così il più giovane capitano della storia azzurra, superando Antonio Juliano. Nella stagione successiva arriva il primo gol in Champions League (contro il Villareal) ma soprattutto il gol del definitivo 2-0 nella finale di Coppa Italia contro la Juventus, portando a Napoli il primo trofeo dopo Maradona. Poi la data da segnare: il 31 gennaio 2014 diventa ufficialmente il nuovo capitano del Napoli. L’anno si chiude nel migliore dei modi, vincendo la seconda Coppa Italia, 3-1 in finale contro la Fiorentina (assist per il gol d’apertura di Insigne) e conquistando la Supercoppa Italiana ai rigori contro la Juventus. Dopo la gestione Benitez ed i trofei vinti, arriva Sarri, con cui Marek sarà destinato a scrivere il suo nome ancora di più nella storia azzurra, pur senza più riuscire a sollevare un trofeo. Ed ora, Ancelotti, con il cambio di modulo, la consacrazione definitiva e la Cina davanti agli occhi.
Cinque allenatori ed un numero impressionante di compagni, da Lavezzi a Cavani, fino ad Higuain. In tanti si sono battuti la mano sul petto, qualcuno ha baciato lo stemma sotto la curva, per poi andare via. Ma lui no. Come una macchia di colore su infinite foto in bianco e nero, Hamsik compare, onnipresente, nella storia recente del club, nel cuore e nei ricordi dei tifosi. E’ rimasto, reggendo il bastone su cui è legata la bandiera azzurra, con la fascia da capitano che dal 2010 porta cucita addosso. Un leader vero e riconosciuto nello spogliatoio, senza mai far parlare di sé per atteggiamenti o casi strani fuori dal rettangolo di gioco. Mai una protesta, mai un insulto. Un giocatore diverso, un uomo controcorrente in un calcio fatto sempre più di esibizionismo e sempre meno di sostanza. Forse anche per questo Hamsik ha significato così tanto. Perché quasi in contrapposizione con la stessa città che ha rappresentato, con la tifoseria di cui è stato simbolo. Un calmo centro gravitazionale attorno a cui ruota il caos napoletano, l’acqua che spegne ma al contempo alimenta il furore. Con la cresta sempre alzata, come la testa tenuta alta contro le critiche gratuite, a difesa di una maglia e di una passione.
520 presenze in maglia azzurra, record assoluto davanti a Bruscolotti. Di cui 408 in Serie A e 80 in Europa, entrambi record. 121 gol fatti in azzurro, record assoluto davanti a Maradona. Di cui 100 in Serie A (secondo di sempre) e 16 in Europa (terzo). Tre trofei vinti, due Coppa Italia ed una Supercoppa Italiana. Numeri freddi che forse dicono poco, ma che raccontano tanto, in modo imparziale, il peso specifico di 11 stagioni e mezza di Marek Hamsik a Napoli.
Cose che non si dimenticano. Perché è così quando si ama. E noi tifosi del Napoli abbiamo amato Marek Hamsik. Lo amiamo ancora, nonostante questo addio. Questo succede quando una storia finisce ma il sentimento, quello no, non se n’è andato. Non può andarsene, nemmeno con tutti i soldi del mondo. Perché ci ricorderemo sempre dei “no” detti al City e allo United, al Real, al Barcellona, alla Juventus e al Milan per tentare in tutti i modi di vincere in azzurro. Ricorderemo sempre i gol, gli assist, i lanci, i recuperi. Ricorderemo sempre un giocatore straordinario ed un ragazzo, un uomo che lo è ancora di più. E quando sarà finita questa storia, che sia oggi, domani o tra sei mesi, ricorderemo sempre quella maglia numero 17 e chi l’ha portata. Ricorderemo quel viso da ragazzo della porta accanto, disinvolto, fiero, trasfigurarsi ad ogni gol, ad ogni esultanza in quel grido leonino che chiamava a raccolta tutto un popolo sotto il suo comando, sotto la sua guida.
E che ora non è più.
Non resta che salutarci Marek, Capitano dal cuore azzurro.
E ringraziarti di tutto.