Chi tifa Napoli, beve vini campani. Curiosità da Vinitaly 2024, Verona.
La Campania e il napoletano rappresentano l’optimum per la viticultura e per la produzione di vini di eccellenza:
terreni e colline assolati e vulcanici, pendii fertili accarezzati dalla brezza marina, dove sorgono vitigni antichi che furono l’uvaggio del nettare degli Dei assaggiato dai romani e da Cicerone che in queste terre si rifugiava per trovare “lettere e dotta cultura”
.Scorrendo la “Carta dei vini” del napoletano, troviamo etichette e nomi ormai famosi e rinomati in Italia e nel mondo:
Piedirosso, Per e palumm, Campi Flegrei, Biancolella d’Ischia, Lacrima Christi, Falanghina, Aglianico, Calliope, Vigna Solfatara, Don Fiore, Gragnano.
Nel passato, i vini campani, erano ritenuti troppo “rustici” (il famoso e, per certi aspetti, famigerato, “vino del contadino”), per accedere alle vette dell’enologia e dei prodotti “eleganti”.
Probabilmente, la cultura del vino, della lavorazione delle uve, non erano mature.
Sovente nei ristoranti, anche in quelli di un certo livello, i vini rossi venivano serviti freddi di frigorifero, una bestemmia per chi desidera assaporare profumi, odori, aromi e retrogusti.
Battendo a tappeto il padiglione Campania di Vinitaly Verona, abbiamo scoperto non solo una incredibile biodiversità di vini e di qualità,
bensì anche livelli eccelsi di professionalità, conoscenze, produzioni di nicchia, recupero di antichi vitigni scomparsi.
Aziende storiche, non di rado piccole, medie o a conduzione familiare, hanno inserito nei propri board e nelle cantine i figli o i giovani laureati che hanno contribuito a coniugare tradizioni e conoscenze scientifiche, sapienze chimiche ed enologiche
Il mondo della produzione e della commercializzazione dei vini campani e napoletani è in continua evoluzione.
Lo conferma Nicola Caputo, Assessore regionale all’Agricoltura, il quale dichiara a 100x100Napoli.it:
“Questa esposizione/evento è stato un grande successo per le aziende campane e la consapevolezza di dovere e volere fare sistema tra i vari territori.
Con l’auspicio e lo stimolo di Regione Campania e delle altre istituzioni, protagonisti i Consorzi, si sta realizzando sempre più una profittevole rete ed un vero e proprio sistema per la massima valorizzazione dei vini campani”.
Ad oggi la regione vanta oltre 400 aziende attive nel campo della produzione enologica.
Incontriamo uno dei produttori campani, dell’area vesuviana, precisamente di Ottaviano, Luigi Romano.
Romano è un piccolo produttore, circa 100 mila bottiglie anno, destinate per lo più al mercato nazionale (quasi tutti i produttori di vini-brand commercializzano ormai il 50% ed oltre delle produzioni verso i mercati esteri),
le vigne si trovano lungo la fascia bassa vesuviana, da Boscotrecase a Terzigno, fino a Boscoreale.
L’attività fu inaugurata dal nonno Luigi, un’istituzione a Ottaviano, con l’azienda fondata nel 1899. “Lavoriamo per rinnovarci ogni anno, con attrezzature sempre più innovative, al fine di elevare la qualità della vinificazione fino all’eccellenza, pur rispettando le tecniche e i criteri di conduzione tradizionali”,
afferma Romano,
il quale assicura come il ricorso alla chimica nei campi e nelle cantine è ridotto all’essenziale, impiegando più che altro verderame e zolfo.
Tra i vini di Romano si annovera l’eccellenza del Lacrima Christi Riserva del 2017, corposo, rotondo e importante al palato, oltre al più fresco e leggero bianco Ginestrella, il Fuoco di Forra e la Selva dei Travi. Pleonastico dire che Luigi Romano è uno sfegatato tifoso del Napoli e dell’Ottaviano.
I suoi sono, inevitabilmente, dei vini “tifosi”.
Curiosando tra gli affascinanti padiglioni regionali e di settore di Vinitaly, incrociamo produttori creativi e prodotti molto particolari.
Montespada, Veneto and Sardinia Wines, ad esempio, produce, oltre ad ottimi e aromatici vini, anche vino de alcolato (contestato con veemenza dal ministro per le politiche agricole, Lollobrigida),
destinato ai mercato nord europei dove risiedono importanti comunità islamiche. Roberto Albertini, il patron dell’azienda, ha ideato anche l’acqua di mare in bottiglietta, depurata e ovviamente salina, da spruzzare sulle pietanze.
Un prodotto destinato ai ristoranti di un certo livello per donare sapidità ai migliori piatti in maniera naturale (anche se l’acqua di mare in bottiglia di plastica può creare qualche legittima perplessità green).
A fine giornata, la serata degli inviati di 100x100Napoli.it si conclude in un eccellente ristorante vegetariano e vegano nei pressi dell’Arena di Verona, il Ziga Bistrò (Via IV Novembre, 18), con ottime pietanze “cruelty free” e piatti creativi e gustosi tutti a base vegetale (gli animali ringraziano!). Ziga Bistrò dimostra che la cucina vegana e vegetariana sa essere estremamente saporita, creativa, elegante, varia e che nulla ha da invidiare ai menù carnei e a base di prodotti di origine animale.
Dalla Sardegna con sapore.
Ogni regione ha la sua narrazione e le proprie storie sul vino. Le aree meno ricche del Paese sono quasi sempre state oggetto di escursioni e traffici di vino ordite dalle aree più ricche e commercialmente affermate.
Dal nord, negli anni 80, giungevano grossisti in Puglia per acquistare grandi quantità di “mieru”, vino forte e corposo, come Locorotondo e Primitivo;
trasportavano le autobotti nelle cantine nordiche e miscelavano il pregiato nettare con vini decisamente più “sciacquette”, rivendendolo con cospicui profitti.
Parimenti, per lungo tempo, la Sardegna ha “offerto” ai mercati del nord i propri preziosi frutti di vitigni locali che venivano vinificati e trattati nelle cantine del continente. Il valore aggiunto di tali operazioni recava benefici alle aziende del nord, lasciando ben poco reddito in loco.
Una politica autolesionista che è stata ripudiata dai viticoltori sardi i quali, con orgoglio, hanno interrotto questo consolidato “furto di identità”, riappropriandosi del proprio presente e futuro enologico e producendo, in situ, i propri vini.
Ci accompagna in questa riscoperta delle radici sarde vitivinicole, Michele Sarti, dell’azienda Antica cantina di Monserrato, una società cooperativa del cagliaritano, con ben 100 anni di storia.
I vini che allietano i palati, con profumi e aromi gentili ma decisi, sono il bianco dell’Isola dei Nuraghi, il Nasco di Cagliari, il Cannonau di Sardegna, il Vermentino sardo, il Monica di Sardegna, il Carignano, il Nasco di Cagliari, il SuPoettu (un Vermentino molto particolare).
I vigneti della Società cooperativa, la prima coop sarda del vino, si estendono per ben 300 ettari nel sud dell’isola. Si tratta di vini di carattere, decisi (i bianchi raggiungono gradazioni alcooliche di 14 – 14,5 gradi), come solo i sardi sanno essere.
Vinitaly, alla sua 58 esima edizione, conferma il successo della Fiera-evento (operatori presenti a Vinitaly ben 97 mila, di cui 30.070 esteri da 140 Nazioni, pari al 31% del totale) e quanto il settore enologico sia trainante per l’agroalimentare di qualità italiana.
I dati dello studio sul vino in Italia hanno evidenziato una produzione annua di 45,2 miliardi di euro (tra impatto diretto, indiretto e indotto), 303 mila occupati e un valore aggiunto di 17,4 miliardi di euro pari all’1,1% del Pil. Senza il vino, si evince dall’analisi, il saldo commerciale del settore agroalimentare scenderebbe del 58% (da +12,3 a +5,1 miliardi di euro nel 2023). All’impatto economico complessivo della filiera contribuisce in modo sostanziale il turismo enologico.
Nelle rilevazioni dell’Associazione Città del Vino, il turismo enologico coinvolge annualmente circa 15 milioni di persone (fra viaggiatori ed escursionisti), con budget giornalieri (124 euro) superiori del 13% a quelli del turista medio, per una spesa complessiva di 2,6 miliardi di euro.
Il vino italiano aiuta il buongusto, il buonumore e traina l’economia enogastronomica del Bel Paese.
Stefano Apuzzo
Giornalista
Fotografie di Roberto Pagano, coautore